Il pollice e la lattina
testo per Martina D'andrea
Camminava lungo il tramonto prendendo a calci una lattina.
Un calcio ogni tre passi. La lattina sarebbe arrivata a casa prima di lui. Lattina fortunata!
Non era la prima volta che considerava una fortuna l'essere presi a calci.
Era sempre stato pronto a spingere con quel gesto drastico sassi, persone, intere città. Rotolavano avanti, dove da soli non sarebbero mai arrivati.
Ma a lui? A lui nessuno l'aveva mai calciato. Era stanco d'arrancare a spese delle sue gambe, d'avanzare con la geniale forza della sua volontà. Un esercizio perpetuo, logorante.
Avrebbe voluto fermarsi col culo all'aria ad aspettare un calcio qualsiasi. Una bella pedata e, con l'affanno di braccia roteanti per mantenere l'equilibrio, piombare senza scelta in un futuro a caso.
Non ci riusciva.
Aveva piedi troppo intraprendenti, un'intelligenza troppo brillante e, forse, un culo codardo.
Camminava lungo il tramonto guardandosi una mano, fendendo folle marcianti in direzione contraria.
Lui era il pollice, loro le altre dita. Si opponevano per afferrare spazio vitale, un goccio d'aria.
E, come sempre, non si rendeva conto di pensare solo a sé.